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PIKETTY THOMAS. CAPITALE E IDEOLOGIA. La Nave di Teseo, 2020

Il nuovo libro di Piketty , che fa seguito a “Il capitale nel XXI secolo”, si compone di 1.176 pagine di testo e si divide in 17 capitoli, raggruppati in 4 Parti.
Parte 1. I regimi della disuguaglianza nella storia
Parte 2. Le società schiaviste e coloniali.
Parte 3. La grande trasformazione del XX secolo.
Parte 4. Rivedere le dimensioni del conflitto politico.

Nell’Avvertenza, l’Autore riconosce due limiti del libro precedente: troppo incentrato sull’Occidente e non aver affrontato a fondo il problema dell’evoluzione dell’ideologia della disuguaglianza.

Introduzione.
Spiega gli scopi e lo sviluppo del libro.
Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze.
Nelle società contemporanee si tratta in particolare narrazione proprietarista , imprenditoriale e meritocratica.
L’Autore però preferisce usare il termine proprietarista, secondo cui la disuguaglianza è giusta perché conseguenza di un processo liberamente scelto nel quale ognuno ha le stesse opportunità di accesso al mercato e alla proprietà e nel quale ciascuno gode del vantaggio derivante dal patrimonio dei più ricchi, che sono anche i più intraprendenti, i più meritevoli e i più utili.

Di fatto, a partire dagli anni ottanta-novanta del Novecento la disuguaglianza è enormemente accresciuta e diventa difficile giustificarla con l’interesse generale.

Così la visione proprietarista diventa un mezzo comodo per giustificare qualunque livello di disuguaglianza senza bisogno di analizzarlo e stigmatizzando e colpevolizzando chi soccombe.

Dall’analisi storica emerge che la lotta per l’uguaglianza e l’istruzione ha permesso il progresso umano e lo sviluppo economico e non la sacralizzazione della proprietà, della stabilità e della disuguaglianza.

Riprendendo il filo della storia è possibile definire i contorni di un nuovo socialismo partecipativo per il XXI secolo e un nuovo orizzonte egualitario, una nuova ideologia dell’uguaglianza della proprietà sociale, dell’istruzione e della condivisione dei saperi e dei poteri.

L’Autore dichiara di voler usare il termine “ideologia” in modo positivo e costruttivo, come un insieme di idee e narrazioni intese a descrivere come dovrebbe strutturarsi la società.

Le risposte che una società deve dare a riguardo attengono principalmente al tema del regime politico e al  regime della proprietà, spesso connessi tra loro; per questo è utile usare il termine di “regime della disuguaglianza”, perché comprende entrambi.
La disuguaglianza non è economica o tecnologica, è ideologica e politica.

Non esistono fondamenti naturali delle disuguaglianze: l’esperienza storica dimostra che esse variano notevolmente nel tempo e nello spazio.
Le attuali disuguaglianze e le istituzioni odierne non sono le sole possibili; possono trasformarsi e reinventarsi. Esiste una sostanziale autonomia della sfera delle idee, la sfera ideologico-politica; per una stessa fase di sviluppo dell’economia vi è sempre una molteplicità di regimi ideologici, politici e della disuguaglianza.

In particolare vi sono molti modi diversi di organizzare i rapporti di proprietà nel XXI secolo e alcuni di questi possono rappresentare un superamento del capitalismo.

L’Autore ritiene che l’esame dei dati (su cui si basa il suo lavoro) non sarà mai sufficiente per dirimere tutte le controversie:
1) perché i fatti stessi sono “costruiti”, dipendendo da dispositivi istituzionali;
2) i problemi studiati sono troppo complessi per trovare un’unica conclusione;
3) perchè è possibile che l’ipotetico obiettivo ideale non sia unico.

Ogni percorso politico-ideologico può essere considerato come un gigantesco processo di apprendimento collettivo.
Dopo aver illustrato le fonti usate (i dati raccolti provengono dalla World InequalityDatabaseWID.world a cui lavorano più di 100 ricercatori in 80 paesi) l’Autore entra nel merito dei problemi.

La situazione della popolazione ha conosciuto progressi enormi, però dietro queste cifre si nascondono molte disuguaglianze.
La rivoluzione industriale è stato un progresso, ma è stato anche un periodo violento. Il progresso non è lineare, è sbagliato pensare che tutto andrà per il meglio, che la libera concorrenza sarà sufficiente per portarci all’armonia universale.

Dal 1980 ad oggi la disuguaglianza è fortemente accresciuta: il decile superiore che era tra il 26 e il 34%, nel 2018 è salito tra il 34 e il 56% (34% in Europa, 41% in Cina, 55% in USA, 56% India, 56% Brasile, 64% Medio Oriente).

L’aumento del reddito tra il 1980 e il 2018 ha visto un aumento fra i decili più bassi, un ristagno di quelli medi e un forte rialzo del decile superiore (curva dell’elefante) Il coefficiente di Gini è poco utile a riguardo.

Aumenti ancora più significativi si sono verificati nei grandi patrimoni mondiali; si tratta di un’evoluzione strutturale di grande portata (si va dai capitalisti americani, agli oligarchi russi, ai petromiliardari del Medio Oriente, ai neo-miliardari cinesi, indiani, messicani,…).

Per studiare l’attuale situazione e le tendenze possibili é certamente utile avere una prospettiva storica di lungo periodo e conoscere le traiettorie. Così l’imposta progressiva è stata inventata dagli USA(1865-1900) preoccupati di diventare un paese diseguale come l’Europa.

L’imposta sul reddito per i redditi più alti è stata per mezzo secolo dell’ 81% negli USA e dell’ 89% nel Regno Unito. La sua riduzione è stata motivata dal sostegno alle imprese che erano penalizzate.

I dati non sembrano dimostrare questa tesi; piuttosto è stata una causa fondamentale dell’aumento della disuguaglianza.
Il lungo periodo della guerra fredda ha congelato la riflessione sul superamento del capitalismo.
Le coalizioni socialdemocratiche (nel senso ampio del termine), con posizioni di potere nel XX secolo, avevano un forte matrice ideologica e intellettuale.

E’ cambiata enormemente la base elettorale socialdemocratica: nel 1950-1980 corrispondeva al voto dei lavoratori, oggi è diventato il voto  della popolazione istruita.

Il conflitto elettorale non è più un conflitto di classe; è un conflitto tra élites diverse, da cui i gruppi sociali a basso reddito sono esclusi. In realtà la coalizione socialdemocratica non è stata in grado di produrre un modello alternativo, in particolare sulla proprietà.

Il messaggio principale del libro: le ide e le ideologie sono importanti, ma non sono nulla senza la verifica delle logiche fattuali, della sperimentazione storica e istituzionale concreta e spesso delle crisi, più o meno violente.
Sembra evidente che una nuova coalizione egualitaria non possa emergere in assenza di una ridefinizione radicale dei suoi fondamenti programmatici, intellettuali e ideologici.

Parte prima.

I regimi della disuguaglianza nella storia.

Cap. 1. Le società ternarie: la disuguaglianza trifunzionale.

La forma di società che ha preceduto la società moderna è costituita dalla società ternaria o trifunzionale, che si basa su tre gruppi sociali: aristocrazia/guerrieri (bellatores), il clero/intellettuali (oratores) e il terzo stato o lavoratori (laboratores).

Sono un tipo di società presente in molte parti del mondo.
E’ importante studiarle perché hanno lasciato un segno durevole sul mondo d’oggi.
Le due classi, del clero e dell’aristocrazia, sono classi di possidenti, che comunque hanno una funzione per il bene comune: il clero svolge il ruolo intellettuale e l’aristocrazia quello della difesa e dell’ordine.
Questo giustifica la disuguaglianza, che comunque è fatta più di coercizione che di consenso morale.

Lo Stato moderno diffondendo l’istruzione e assumendo il compito dell’ordine e della difesa rende superflui questi compiti.

Queste due classi rappresentano ciascuna il 2/3% della popolazione (di più in Spagna). Le principali differenze tra società ternarie si esprimono attorno a due problemi chiave: la molteplicità che possono assumere le élites e l’unità vera o presunta del popolo.
Ad esempio, se il clero può sposarsi, come in India, la sua stabilità come gruppo dominante è favorita.
In genere poi queste società si basano sull’idea di unificazione in un solo statuto di tutti i lavoratori, che costituiscono così una sola classe.

Cap.2. Le società dei tre ordini europee: potere e proprietà.

E’ un capitolo dedicato all’esperienza francese.
Le due classi al potere sono l’élite intellettuale religiosa e quella guerriera e militare, con compiti ben distinti (ad esempio, esistono regole per tenere il clero lontano dalle armi).

Esiste poi un forte tendenza a unificare tutti i lavoratori in un’unica classe: questa progressiva affermazione, dopo l’anno mille, della classe dei lavoratori liberi sarà una causa fondamentale dello sviluppo economico europeo.

Questa grande categoria, secondo Sieyès, rappresentava il 98-99% della popolazione. Così nel 1789, quando si riuniscono gli Stati Generali (che esistevano dal 1302, ma convocati l’ultima volta nel 1614), Sieyès, criticando le riunioni separate dei tre ordini che dava la maggioranza a clero e nobiltà, riesce a far accogliere il principio di un’unica Assemblea dove il Terzo Stato ha la maggioranza e che il 4 agosto 1789 approva l’abolizione dei privilegi dei primi due ordini.

Con questa decisione si abolisce la “decima” – tassa fondamentale a favore del clero che ammontava al 8-10% del raccolto – riducendo così drasticamente le risorse e il potere del clero (indirettamente viene colpito anche il popolo per il taglio delle spese sociali e per l’istruzione).

Nella nobiltà esisteva un serio contrasto tra l’antica nobiltà di spada e la nuova nobiltà di toga (magistrati, gentiluomini di penna), malvista dai primi e criticata di sfruttare le debolezze e i debiti della corona per incassare privilegi. E’ difficile stabilire il numero dei nobili in assenza di censimenti: a volte si contavano i “fuochi”.

Dai dati in possesso si può stabilire che la nobiltà abbia rappresentato circa il 2% della popolazione tra il 1380 e il 1600, scendendo poi all’1,5% nel 1700 e allo 0,8% nel 1780.

Insieme, clero e nobili, al tempo della rivoluzione contavano attorno allo 1,5% (210.000 nobili e 200.000 membri del clero, su una popolazione di 28 milioni). Sulla popolazione adulta maschile la percentuale del clero si eleva all’ 1,7%; nel corso del ‘700 c’erano praticamente due religiosi per 100 adulti.
Attualmente sono l’1/mille.

La classe religiosa è quasi scomparsa. La diminuzione della nobiltà si spiega con interventi restrittivi statali, ma anche per una scelta malthusiana di limitare la categoria per difenderla meglio.
Per quanto riguarda la proprietà si calcola che la nobiltà possedesse tra un quarto e un terzo delle proprietà, ridotte poi alla fine dell’ ‘800 (con un aumento negli anni 1830-40, perché era cambiato il regime).

La Chiesa attorno agli anni ‘700 possedeva il 15% delle proprietà terriere cui però bisognava sommare la decima, stimabile per un altro 10%.
Altre proprietà non sono classificabili. In Spagna nella stessa epocala proprietà del clero era del 30%.
Secondo Piketty, la ricchezza diventa una componente positiva della società cristiana sin dall’inizio e una base patrimoniale robusta ha consentito per secoli una classe clericale corposa.

Alla elaborazione della dottrina cristiana sulla proprietà, particolarmente nel medioevo, deve molto l’attuale diritto moderno.

Cap.3. L’avvento della società dei proprietari.

Si tratta ora di analizzare come le società ternarie si siano gradualmente trasformate in società dei proprietari nel corso del XVIII e del XIX secolo. La Rivoluzione francese tra il 1790 e il 1814, porterà allo sviluppo di una società dei proprietari, fortemente improntata alla disuguaglianza.

Per il legislatore rivoluzionario i problemi erano due: da una parte la questione dei poteri sovrani (giustizia, sicurezza, uso legittimo della violenza) che dovevano essere ricondotte allo Stato, dall’altra la questione della proprietà, che doveva diventare prerogativa della sfera privata del singolo.

Dunque, furono aboliti i privilegi nobiliari e del clero che rientravano nel primo caso (es. le 5 signorie locali di giustizia), ma sui diritti di proprietà vi furono molte esitazioni. In pratica molti dei vecchi diritti feudali furono considerati di origine contrattuale e pertanto mantenuti.

I diritti feudali erano così antichi che era impossibile risalire all’origine e ormai erano diventati pacifici diritti di proprietà. Intanto l’Assemblea, diventata Costituente, aveva trasformato la monarchia in costituzionale e censitaria (solo chi pagava tasse elevate aveva il diritto al voto).

Durante il periodo rivoluzionario non fu approvato alcun provvedimento di tassazione progressiva, né sui redditi né sul patrimonio; fu applicata una modesta aliquota fiscale sui redditi e sui patrimoni, che spiega bene la crescente concentrazione della proprietà della Francia nel XIX secolo.

La separazione tra poteri sovrani e diritti di proprietà è pienamente riuscita e ha dato vita a una nuova forma di società: la rivoluzione non ha invece modificato per nulla il sistema di proprietà che poi è rimasto inalterato sino al 1914.

Il dibattito sull’ uguaglianza è rimasto aperto, ma senza conseguenze pratiche (Condorcet, ad esempio, sosteneva che “E’ facile dimostrare che i patrimoni tendono naturalmente all’uguaglianza”).
Occorre tener presente che l’ideologia proprietarista ha una dimensione emancipatrice reale (da non dimenticare).

Vi è una parità di diritti e ognuno ha il diritto di godere della sua proprietà. Nello stesso senso si muovono la Dichiarazione di Filadelfia (1776) e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), il cui art.2 recita: ”Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e inalienabili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. L’affermazione costituzionale è volta a limitare drasticamente ogni possibilità di ridefinizione.

Questa protezione assoluta può portare a una quasi sacralizzazione della proprietà e alla sfiducia nel rimetterla in discussione. Si ha paura che, modificando, non si sappia dove si vada a finire (si solleva il coperchio del vaso di Pandora).

La quasi sacralizzazione è la risposta più ovvia alla paura del vuoto. Il rispetto assoluto forma una nuova “trascendenza” che consente di evitare il propagarsi del caos.

E’ l’argomentazione proprietarista basata sulla necessità di stabilità istituzionale.

Cap.4. Le società dei proprietari: il caso Francia.
Fra le varie traiettorie possibili la Rivoluzione francese ha scelto quella che porta tra il 1800 e il 1914 allo sviluppo della società dei proprietari. (Ci ha lasciato comunque gli archivi delle successioni ereditarie, strettamente legati all’ideologia proprietaria, che costituiscono una preziosa fonte statistica). Solamente con le due guerre mondiali il trend del dominio della proprietà dei più ricchi entra in crisi.

La quota del patrimonio del 10% dei più ricchi è stata attorno all’ 80% fino al 1914 e i redditi al livello del 50% ; poi sono scesi decisamente per risalire a partire dal 1990 (rispettivamente al 55% i patrimoni e al 32% i redditi). 

A Parigi la concentrazione era anche maggiore (una curiosità:non si poteva possedere un appartamento singolo, si doveva possedere l’intero palazzo).
Si verifica una differenziazione dei patrimoni: nel 1912, sempre nella capitale, si registrano un 35% di beni immobiliari e un 62% di beni finanziari, di cui il 21% internazionali.
Questa situazione è in larga misura dovuta al sistema fiscale messo in atto dalla Rivoluzione, proporzionale e con un tasso modesto, attraverso 4 tasse diverse (lesgrandesvieilles) che sono durate fino al 1901.

Ad es. per la successione il tasso era dell’1%. Una delle quattro tasse era quella su “porte e finestre”, indicatore della proprietà senza bisogno di entrare nelle case e chiedere documenti e conti. Solamente nel 1901 si riuscì a realizzare un’imposta differenziata sulle successioni.

C’è sempre stata una forte resistenza al cambiamento perché sembrava di turbare l’armonia, la prosperità economica e l’uguaglianza dei cittadini. L’imposta fondiaria era la più importante; era solo sugli immobili, non sugli altri capitali (quelli finanziari, destinati nel tempo a diventare principali). Era proporzionale, diventata del 3-4% del valore locativo, di fronte a un rendimento delle locazioni del 4-5% annuo: in pratica corrispondeva allo 0,2% del valore della proprietà.

Durante la Restaurazione poi il diritto di voto era riservato ai cittadini che pagavano tasse per almeno 300 franchi e siccome la tassa principale era quella immobiliare, i votanti erano 100.000
grandi proprietari (che quindi si garantivano anche il controllo politico).

Occorre aspettare il 1909 per avere una proposta di imposta generale sul reddito a carattere moderatamente progressivo (quota massima del 5%), proposta bloccata dal Senato fino al 1914, quando ne fu accolta l’adozione in piena guerra. Il sistema fiscale vigente in Francia ha offerto le condizioni ideali per l’accumulazione e la concentrazione della ricchezza, con aliquote di imposta di pochi punti percentuali. Dunque la Rivoluzione francese non realizzò mai l’uguaglianza e quando la Francia introdusse l’imposta progressiva servì per finanziare la guerra e non per ridurre la disuguaglianza.

La Francia si è fatta un mito della propria uguaglianza, ma non rispondente alla realtà. Il capitalismo è strettamente legato al proprietarismo, ma non coincidono: il proprietarismo è nato prima, come superamento della società trifunzionale.

Cap.5. Le società dei proprietari: traiettorie europee.

Analizziamo la consistenza del clero e della nobiltà.

Il clero in Francia, Spagna, Regno Unito si aggira fino al 3% attorno al 1700, per scendere allo 0,5 a fine ‘800. Nel Regno Unito la diminuzione avviene prima con la chiusura dei monasteri decisa nel ‘500 da Enrico VIII; in Spagna il processo è più lento e prosegue anche nel ‘900. Per l’aristocrazia si possono distinguere due gruppi di paesi: Francia, Regno Unito, Svezia con numeri modesti, attorno all’1-2% e in diminuzione dal settecento all’ottocento; Spagna, Portogallo, Polonia, Ungheria, Croazia con numeri molto elevati, tra il 5 e l’8% attorno al 1800. Numeri alti significa una nobiltà con titoli, ma con poca proprietà.

In Inghilterra esistono due Camere _ Camera dei Lord e Camera dei Comuni – dal XIV secolo, ma è la prima che conta. Nella Camera dei Lord ci sono i Lord spirituali (il clero, ridotto a 36 membri) e gli altri (460 membri, con diritto ereditario di padre in figlio). C’è una forte concentrazione di potere e dei possedimenti: intorno al 1880 circa 7.000 famiglie (0,2% della popolazione) possedeva l’80% delle terre (la metà era in mano a 250 famiglie). Il ruolo della Camera dei Lord era dominante: ha espresso la maggior parte dei primi ministri e dei membri del Governo. Anche la Camera dei Comuni era fatta prevalentemente da nobili (i cadetti, oppure i figli in attesa di subentraree i baronetti, portatori di un titolo acquisito). La Camera dei Lord ha avuto il diritto di veto fino al 1911. La Camera dei Comuni ha visto man mano allargare il suo elettorato (5% dei maschi adulti nel 1820, 14% nel 1840, ulteriori allargamenti nel 1867 e 1884, che portano i votanti al 60%.

Il suffragio universale è del 1918 per gli uomini e del 1928 per le donne. Dal 1872 il voto diventa segreto).

La Camera dei Lord esprimeva il reale potere dei proprietari, basti ricordare il Black Act del 1723 contro i ladri di legname e le leggi sulle enclosures (1773 e 1801). I cambiamenti elettorali mutano i rapporti di forza e il partito liberale (ex-whig) sposa la causa dei nuovi elettori.

I liberali fanno approvare importanti leggi fiscali progressive sul reddito, sulle successioni e sul patrimonio.

Nel 1911 fanno approvare una legge che toglie potere alla Camera dei Lord, che questa è costretta ad accettare. Irlanda. Nel 1800 viene approvato l’atto di Unione dell’Irlanda all’Inghilterra (con una rappresentanza limitata. Inoltre la maggior parte dei terreni irlandesi era in mano a proprietari inglesi, per lo più “assenteisti”).

Quando si verificò la grande carestia irlandese del 1845-48 questa situazione divenne esplosiva. Si realizzarono man mano leggi per redistribuire le terre, con la preoccupazione di salvare il principio della proprietà. Si aprì un grande dibattito sulla disuguaglianza. Ciò portò alla decisione di realizzare un’indagine in tutto il Regno Unito (i land surveys), negli anni settanta dell’ ‘800 che rilevò una concentrazione di ricchezza più elevata delle aspettative più pessimistiche.

Svezia.
Si tratta di un caso molto particolare. Dal 1527 al 1865 la monarchia si è retta su un Parlamento (Riksdag) composto dai rappresentanti di 4 ordini: clero, nobili, borghesia urbana e contadini, questi due ultimi per censo. Esistevano due Camere: Alta (elettori l’1% della popolazione) e Bassa (uomini adulti, rappresentanti il 20% della popolazione). Solo nel 1919 il suffragio diventa universale per gli uomini e nel 1921 per le donne. I voti a disposizione di ognuno erano multipli. Nel 1871 vi furono 54 comuni in cui un solo elettore deteneva più del 50% dei voti; il primo ministro possedeva la maggioranza dei voti del suo comune dove aveva una grande tenuta.

La Svezia è un caso interessante di un paese dove si è passati da una grande disuguaglianza ad una società socialdemocratica.
Ciò dimostra che sono possibili traiettorie diverse. (Situazioni e problemi analoghi si registrano nelle società per azioni, dove si discute del potere degli azionisti, che in alcuni casi è stato limitato a favore dei dipendenti). Nelle società proprietariste si vendevano anche le cariche: oggi non più, però il debito pubblico significa dipendere dai creditori.

Se confrontiamo Regno Unito, Francia e Svezia, al di là dei diversi sistemi, il livello di concentrazione proprietaria alla vigilia della 1^ Guerra mondiale era molto simile; variava tra l’85% e il 90% per il 10% dei più ricchi, il 40% in mano ai decili intermedi, l’1-2% al 50% più povero.

Più egualitaria la distribuzione del reddito, rispettivamente: 50-55% più ricchi, 35% intermedi, 10-15% categorie più povere. In questo periodo, quello della vigilia della Guerra mondiale, la società proprietarista si trova di fronte a tre grandi problemi:

1) La concentrazione della ricchezza era smisuratamente elevata e difficilmente giustificabile in nome dell’interesse generale;

2) Era aperta una sfida sulle disuguaglianze esterne, di carattere coloniale;

3) Era in atto una sfida nazionalistica e identitaria con forti tensioni di concorrenza estrema.


Parte seconda. Le società schiaviste e coloniali.

Cap.6. Le società schiaviste: la disuguaglianza estrema.
La forma più estrema di disuguaglianza la ritroviamo nella società schiavista. (La schiavitù è stata abolita nel Regno Unito nel 1833, in Francia nel 1848, negli Stati Uniti nel 1865, in Brasile nel 1888)

Vi sono società con schiavi e società schiaviste. Vi sono state società schiaviste anche in Africa e in Indonesia.

In Europa il processo di formazione della classe dei lavoratori in un unico status è durato a lungo. La tratta degli schiavi africani ha riguardato 20 milioni di persone tra il 1500 e il 1900 (verso l’America e verso l’Oceano Indiano).

Gli schiavi secondo il “Code Noir” (Luigi XIV) non potevano possedere nulla.

Negli USA gli schiavi da un milione nel 1800 erano diventati 4 milioni nel 1860, per riproduzione naturale (è stata la più massiccia concentrazione di schiavi della storia).

La separazione tra la popolazione nera, relegata nelle piantagioni, e quella bianca era assoluta.

L’abolizione della schiavitù nel Regno Unito (1833) avvenne con rimborso ai proprietari di schiavi a carico dello Stato e a prezzo di mercato (nessun rimborso per gli schiavi e per il loro lavoro). Gli schiavi emancipati furono circa 800.000, quasi tutti nelle Antille Britanniche (Giamaica, Trinidad, Barbados, Guyana,..).

Gli argomenti a favore dell’abolizione erano di ordine morale, ma non mancava una più ampia visione economica e sociale, per cui prevaleva l’idea proprietarista che il padrone di schiavi andava risarcito.

Per la Francia ci fu un’abolizione nel 1794, poi soppressa da Napoleone, e una seconda definitiva nel 1848; furono dovute soprattutto alle ribellioni che imposero la libertà (1802 Guadalupa, 1815 Guyana, 1831 Giamaica).

Nel 1789, vigilia della rivoluzione, in queste isole (Antille) c’era la più grande concentrazione di schiavi (700.000 nelle isole francesi e 600.000 in quelle britanniche).

In alcune isole (Giamaica, Barbados, Martinica) gli schiavi rappresentavano l’80-90% della popolazione. Haiti all’epoca contava 470.000 schiavi (oltre il 90%), 28.000 bianchi e 25.000 meticci; 9 nel 1804 scoppia la rivolta che porta all’indipendenza.

E’ la prima conquistata da una popolazione nera ai danni di una potenza europea. La Francia accettò di riconoscere l’indipendenza del paese(1825) ma solo dietro il pagamento della perdita subita dai padroni di schiavi (150 milioni di franchi-oro che valeva il 15% della produzione nazionale (Haiti ha finito di pagare nel 1950). Haiti dunque ha pagato duramente, col sacrificio del suo sviluppo economico.

Dopo il Regno Unito, anche la Francia pensò di rinunciare agli ultimi 250.000 schiavi delle sue colonie; ciò che avvenne nel 1848 non senza prevedere il rimborso in parte pagato dagli schiavi stessi (soprattutto attraverso obblighi di lavoro per lunghi periodi attraverso contratti speciali: engagés per i francesi, identures per gli inglesi).

In Svezia nel 1885 viene approvata una legge che obbliga al lavoro forzato chi è privo di lavoro e non ha risorse per mantenersi.

Si vede in queste storie sia un articolarsi di situazioni tra lavoro libero e lavoro forzato, sia la forza del regime proprietarista, per cui sono i padroni e non gli schiavi ad essere indennizzati (il principio è così forte che non si scava nel passato per vedere qual è l’origina della proprietà).

Negli USA il sistema schiavistico, tra il 1800 e il 1860, alimenta un eccezionale successo economico.
Gli schiavi sono tutti collocati nel Sud: Carolina del Sud, Georgia, Virginia...

Ben 11 su 15 dei primi presidenti USA erano schiavisti. Il cotone, prima prodotto da San Domingo, alla metà dell’‘800 passa agli USA.
Costituisce il 75% di quello importato in Europa. Fortunatamente tra il 1800 e il 1860 crebbe maggiormente la popolazione del Nord, non schiavista. Il programma originario di Lincoln (1860) prevedeva solo di non estendere la schiavitù ai nuovi Stati dell’Ovest e una forma molto graduale di superamento nel Sud, dietro rimborso. Il costo globale degli schiavi sul mercato rappresentava una cifra enorme, equivalente all’intero bilancio dello Stato, il che rendeva impossibile il rimborso. Alcuni esponenti del Sud ritenevano che gli schiavi erano trattati meglio dei proletari e Jefferson, Madison, Monroe erano per la liberazione degli schiavi, riportandoli però in Africa. Il partito democratico di allora era forte nel Sud e difendeva lo schiavismo contro il potere economico concentrato al Nord.

I sudisti ripresero il controllo dei loro Stati, escludendo gli ex
schiavi dal diritto di voto (anche i repubblicani consideravano i neri non maturi). Nel 1870 fu adottato il XV emendamento che decretò il divieto di qualsiasi discriminazione razziale per il voto, lasciando l’applicazione alla discrezione degli Stati (così per mezzo secolo i neri furono esclusi dal voto e dalle scuole). Quello dei democratici costituiva una forma di social-nativismo (la legittimità dei gruppi a occupare i territori in cui sono nati). Brasile. Nel 2010 il 48% della popolazione si dichiara bianco, 43% meticcio, l’8% nero e l’1% asiatico: dunque una società etnica molto avanzata.

Nel 1888 avviene l’abolizione della schiavitù e nel 1891 viene approvata la prima Costituzione repubblicana del paese; però gli analfabeti erano esclusi dal voto (il70% nel 1890 e ancora il 20% nel 1980).

Il problema più difficile post-schiavitù è rimasto quello dei rapporti di lavoro, su cui pesava la schiavitù precedente. 

In Russia l’abolizione della schiavitù fu decisa dallo Zar Alessandro II nel 1861; vivevano allora 22milioni di servi della gleba (40% della popolazione).

I servi dovevano rimborsare i padroni per 49 anni (poi in parte ridotti).

Cap.7. Le società coloniali: eterogeneità e potere.

Le colonie erano organizzate per privilegiare i vantaggi dei coloni, con forme di dominio e di disuguaglianza meno radicali della schiavitù. Le disparità di status giuridico erano profonde e determinavano forme di lavoro forzato; il dominio non era solo militare, ma anche intellettuale e di civilizzazione. Si distinguono due fasi storiche di colonizzazione: quella iniziata nel Cinquecento con la scoperta dell’America e poi delle vie marittime per l’India e la Cina, terminata attorno al 1800-1850, e una seconda che culmina negli anni 1890-1940 e si conclude con l’indipendenza negli anni sessanta del ‘900.

Le società schiaviste richiedevano una presenza di origine europea spesso elevata (fa eccezione San Domingo dove erano il 10%), non così le colonie. In India gli inglesi costituivano lo 0,1% della popolazione (poiché si appoggiavano sulle élites locali) e nelle Indie Olandesi (Indonesia) la popolazione europea era lo 0,3%.

Una colonia di popolamento è stata l’Algeria (10%), un po' meno la Tunisia (8%) e Marocco (4%), mentre altre realtà si caratterizzano per il massiccio calo della popolazione autoctona (Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia).

A San Domingo il 10% dei più ricchi si appropriava dell’80% della ricchezza prodotta (forse anche di più), in Algeria il 10% nel 1930 prendeva il 78%, nel Sud Africa superava il 70% nel 1950. Nelle colonie inglesi, e in parte in quelle francesi, era l’1% ad appropriarsi della maggior parte dl reddito (in genere si trattava dei funzionari europei).

Esiste un concetto di disuguaglianza massima: in una società povera è praticamente impossibile la disuguaglianza; più la società cresce più la disuguaglianza può svilupparsi (ad es., se il reddito medio è tre volte quello della sussistenza, il 10% dei più ricchi può teoricamente appropriarsi del 70%).

Tutte le varie società hanno potuto realizzare alti livelli di disuguaglianza per un progetto politico ideologico preciso, fondato sui rapporti di forza e su sistemi legali e giuridici precisi. I bilanci coloniali dovevano essere in pareggio: essi gravavano soprattutto sui colonizzati attraverso imposte “piatte” (uguali per ogni abitante, ricco o povero), mentre le spese andavano in larga misura ai coloni (governatore, funzionari, polizia).

In Madagascar i funzionari europei erano il 10%, ma riscuotevano il 60% dei salari, in Marocco (1925) il 79% delle spese per l’istruzione andava alle scuole per europei. Negli ultimi anni di colonizzazione lo Stato francese ha aumentato le spese per le colonie, portandole allo 0,5% del proprio bilanci, però le spese militari per le colonie erano il 2%. Comunque, le colonie rendevano e forte era la spinta ad allargarle. Notevole è stato il trasferimento di ricchezza. Quella delle Antille valeva per la Francia il 7% del reddito nazionale.

Nel 1912 le attività oltremare rappresentavano il 20% dei patrimoni di Parigi. Nel periodo 1890-1914 la Francia ha avuto dalle colonie un reddito addizionale del 5% e il Regno Unito dell’8%. Si è tentato progressivamente di far passare le colonie come una forma di “dolce commercio” conveniente a tutti. Ma rimane il fatto che Haiti ha dovuto pagare fino al 1950 e che alla Cina fu imposto un debito pubblico per molti anni a seguito della guerra dell’oppio. Era la forma dei “trattati diseguali”: si interveniva con un pretesto e poi ci si insediava. Così in Marocco col preteso di aver dato rifugio a un capo ribelle e così in Algeria occupata per eliminare la minaccia dei pirati barbareschi.

Le acquisizioni patrimoniali franco-inglesi, una volta raggiunta una certa dimensione, seguono una logica di accrescimento: esse consentono di disporre di rendite future, ma anche di ricevere beni e servizi da altri paesi, senza bisogno di esportazioni.

Le proprietà a livello internazionale presentano problemi complessi e richiederebbero standard di giustizia accettabili. Spesso questi patrimoni erano fortemente redditizi (a Parigi nel 1912, un terzo o un quarto degli asset erano coloniali). Se i redditi erano meno elevati, subentrava l’idea della missione coloniale civilizzatrice. Nelle colonie francesi tra il 1912 e il 1946 si è praticato il lavoro forzato; siccome molti non erano in grado di pagare le tasse, erano costretti ad una corvée di 12 giorni, che spesso erano molto di più.

Per costruire la ferrovia Congo-Oceano furono reclutati 8.000 africani; ne morivano molti e si andava a caccia di altri. Era considerato lavoro militare per non pagare e aggirare le regole ILO.

In Sud Africa a Capo Town la disuguaglianza era per censo, per cui anche un piccolo numero di neri poteva votare. Per il resto del Sud Africa i boeri realizzarono riserve indigene dove stabilire sul 7% del territorio l’80% popolazione.

Adesso un certo numero di neri appartiene al 10% superiore, ma si tratta di un numero esiguo. Con la fine del colonialismo si è posto il problema dell’assetto giuridico statale. Nel 1945 fu eletta un’Assemblea Costituente con 522 deputati francesi e 66 deputati dei vari territori dell’ ex-impero.

Fu approvata nel 1946 la legge che aboliva il lavoro forzato e un’altra che conferiva la cittadinanza francese a tutti gli abitanti dell’impero. La paura di un’unica Assemblea dove gli ex-colonizzati avrebbero potuto assumere la maggioranza fece fallire il referendum del 1946. Oggi l’Assemblea sopravvive coi Dipartimenti d’Oltremare, che sono molto ridotti (hanno 27 deputati su 577).Il problema di come organizzare in modo federativo le grandi comunità rimane aperto.

Cap.8. Società ternarie e colonialismo: il caso dell’India.
L’India rappresenta la più grande democrazia del mondo (1,2 miliardi di abitanti). Già nel 1700 con 170 milioni di abitanti superava la Cina (140 milioni) e l’Europa (100 milioni); è previsto a breve il superamento della Cina, la cui popolazione è in decrescita, contrariamente all’India.

L’Impero Moghul (tra il 1526 e il 1707) ha prodotto un importante sincretismo culturale e politico tra induismo e islam. Attualmente – censimento del 2011 - si contano circa un 80% di induisti, un 14% 12 di musulmani e un 6% di appartenenti ad altre religioni ( cristiani, buddisti, sikh), però il numero degli induisti è inflazionato perché comprende chi non dichiara alcuna appartenenza. L’induismo mette in relazione gli aspetti religiosi con quelli dell’organizzazione sociale. Le classi sociali (varna) del sistema indù sono quattro: bramini (clero), kshatriya (guerrieri), vaishiya (contadini), shudra (lavoratori umili, il cui compito è servire). Con questo sistema ognuno occupa il posto che gli è assegnato nell’organizzazione sociale (può solo sperare di reincarnarsi in un varna superiore). Gandhi era molto rispettoso dell’ideale braminico; riteneva necessaria la saggezza degli intellettuali e diffidava del materialismo occidentale. Naturalmente lo schema dei varna è in larga misura ideale; esistono di fatto tanti gruppi locali o professionali che sono le caste (gli “jati”), unità sociali elementari. C’è un alto grado di endogamia matrimoniale.

Nell’opera di colonizzazione, gli inglesi hanno insistito sulla struttura dell’India in caste, a dimostrazione dell’arretratezza del paese; hanno cercato di inserire gli jati nei varna e coi censimenti hanno irrigidito questa divisione (censimenti iniziati nel 1871 e proseguiti fino al 1941). Con la colonizzazione perdono potere i kshatriya e prevalgono i bramini, su cui gli inglesi si appoggiavano per governare (era la classe colta). I bramini sono una vera e propria classe sociale, con famiglie, figli, accumulazione di capitali e patrimoni (a differenza del clero cristiano). La scoperta dell’India è stata fatta da Vasco de Gama, con molti malintesi; pensava che Calicut (nel Bengala) fosse una città cristiana. La colonizzazione portoghese era ispirata ad una dimensione messianica.

Decisamente commerciale invece l’iniziativa olandese che nel 1602 vara la Compagnia Olandese delle Indie Orientali (cui segue la Compagnia delle Indie Orientali britannica); si tratta non di semplici aziende di mercanti che usufruivano di un monopolio, ma di gestori di veri e propri eserciti privati. Gli abusi erano di una tale gravità da spingere poi il governo inglese a intervenire direttamente nell’opera di colonizzazione.

Vi è stato un cambiamento di paradigma volto a presentare la presenza coloniale come opera civilizzatrice, dovuta alla superiorità culturale (vedi E. Said, Orientalismo). Così Napoleone nella sua spedizione in Egitto si fece accompagnare da 166 scienziati.

Secondo Said gli occidentali presentano le società asiatiche come statiche (invece di storicizzarle), incapaci di governarsi, ciò che giustifica l’intervento. Per quanto riguarda la popolazione indiana i bramini nel censimento del 1881 erano il 6,6% mentre nel 1930 erano un po' diminuiti (5,6%); i kshatriya erano rispettivamente il 3,8 e il 4,1%; nel 2014 i bramini sono aumentati al 6,2% e i kshatriya sono il 4,8%. Nel 1891 solo il 10,4% degli uomini era in grado di leggere e scrivere, per la maggior parte bramini.

Nel 1911 tra i bramini del Bengala erano istruiti il 64,5% degli uomini e l’11,3% delle donne (segno di un certo progresso). Con il censimento erano identificati anche i segmenti socialmente inferiori. Le leggi sul vagabondaggio servivano a recrutare mano d’opera per il lavoro forzato (in particolare, costruzione di strade). Alla fine del colonialismo gli inglesi iniziarono ad abolire le regole discriminatorie; poi nel 1949, con l’indipendenza, le antiche divisioni vennero definitivamente abolite.

Ci sono state lotte per il riconoscimento dei “dalit” (gli intoccabili), grazie aAmbedkar, che poi decise insieme a Gandhi il 13 sistema delle quote “riservate”, entrato nella Costituzione del 1950 ed in vigore ancora oggi. Dal 1947 l’India ha messo in atto una politica di “discriminazione positiva”. Essa ha riguardato le “schedulescastes”(gli intoccabili), cioè tutti i gruppi sociali in difficoltà socioeconomica o indigenza materiale. Queste insieme alle “schedulestribes”(popoli autonomi con rischio di marginalità) costituivano il 21% negli anni 1950-1970 e il 25% tra il 2000 e il 2018.

Più difficile calcolare gli OBC (otherbackward classes): una Commissione nel 1953 li calcolava intorno al 32%, che insieme agli SC e ST portava al 53% i posti riservati. Un’altra Commissione nel 1978-80 li calcolava addirittura al 54%.

Adesso si seguono le indagini dell’Istituto di statistica che ha valutato l’insieme al 36% nel 1999, al 41% nel 2004 e al 44% nel 2014. Naturalmente se una casta è inclusa nella OBC, ne è esclusa la sua “creamylayer”(la parte più agiata). Dal 2018 la Corte Suprema ha esteso questo sistema anche alle SC e ST. Nell 1993 è stata approvata una legge che prevede un terzo dei seggi alle donne nei municipi. Questa politica ha indubbiamente favorito l’integrazione delle classi popolari nell’ambito politico.

Poco invece è stato fatto per investire in servizi pubblici rivolti alle fasce sociali più sfavorite (istruzione, sanità, trasporti). Niente poi è stato fatto a riguardo dei patrimoni e della redistribuzione della ricchezza (anche qui ha funzionato la paura di scoperchiare il vaso di Pandora). Nel 2016 erano 77 i paesi che usavano le quote attribuite alla rappresentanza femminile.

L’India è stata all’avanguardia anche per superare le pesanti eredità di status del passato. Al tempo stesso il sistema delle quote rischia di cristallizzare le appartenenze di casta; i matrimoni misti sono pochi, anche se in aumento (e i dati non sono molto diversi da quelli europei o americani).

Cap.9. Società ternarie e colonialismo.
Traiettorie euroasiatiche. L’esame delle società schiaviste e coloniali attesta che le potenze colonizzatrici hanno tratto enormi benefici dalle materie prime ricavate dalle piantagioni. Il predominio militare europeo è connesso allo sviluppo di una grande capacità fiscale e amministrativa. Il gettito fiscale delle maggiori potenze europee si attestava attorno alle 150 tonnellate d’argento all’anno nel periodo 1500-1550. Ma l’Inghilterra e la Francia nel ‘700 incrementarono decisamente queste entrate: 600 e 900 tonnellate rispettivamente nel 1700, 800 e 1100 negli anni cinquanta dello stesso secolo, 1600 e 1900 negli anni ottanta (per un paragone, lo Stato ottomano rimane fermo a 150-200 tonnellate).

La pressione fiscale invece rimane bassa, entro il 10% del reddito nazionale, fino alla 1^ Guerra Mondiale; per poi crescere nel XX secolo, negli anni 20 e poi negli anni 70-80, raggiungendo livelli tra il 30% e il 50%. Con entrate fiscali dell’1% del reddito nazionale i poteri sono molto ridotti; con entrate dell’8-10% si possono coprire non solo le spese normali di polizia e di giustizia, ma dedicarne molte alle spese militari, che assorbivano anche metà delle entrate. Si possono distinguere due periodi di “balzi in avanti”: 14 - tra il 1500 e il 1800 con il passaggio dell’imposizione fiscale dall’ 1-2% al 6-8% e l’affermazione delle società proprietariste; - nel XX secolo col passaggio dal 6-8% al 30-50% che porta a diverse forme di società democratiche.

L’incremento significativo delle imposte è in genere avvenuto allo scopo di finanziare il rafforzamento dell’esercito. I paesi europei sono stati in guerra per il 95% del tempo nel XVI secolo, per il 94% nel XVII, per il 78% nel XVIII, per il 40% nel XIX e per il 54% nel XX.

Secondo Pomeranz (Pomeranz, La grande divergenza: la Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna) due fattori hanno determinato la divergenza tra l’Europa da una parte e Cina e Giappone dall’altra: l’abbandono del legno come fonte energetica per passare al carbone (le foreste erano state pressoché totalmente sfruttate) e in secondo luogo la capacità fiscale e militare che consentì una divisione internazionale del lavoro particolarmente proficua.

Attorno al 1830 le importazioni di cotone, legno e zucchero verso l’Inghilterra provenivano dallo sfruttamento di 10 milioni di ettari di terreno, cioè 1,5-2 volte il totale delle terre coltivate nel Regno Unito. Senza la soluzione coloniale lo sviluppo sarebbe stato ben più limitato. Ciò porta a riconsiderare la Rivoluzione industriale come esito di uno stretto rapporto tra Europa, America, Africa e Asia.

Al di là delle ottimistiche visioni smithiane, il Regno Unito sapeva usare la forza per imporre il proprio commercio, come nel caso della guerra dell’oppio con la Cina che si concluse col primo dei trattati diseguali (la Cina dovette versare pesanti contributi e cedere l’isola di Hong Kong). Si calcola che metà del totale degli schiavi sia stato trasportato tra il 1780 e il 1820, contribuendo a fare in modo che i britannici e gli europei assumessero il controllo della produzione tessile.

Dunque sostenere che il vantaggio degli europei dipende da virtuose istituzioni parlamentari non è difendibile. Cina e India detenevano una quota del 53% della produzione manifatturiera agli inizidel XIX secolo, ridotta al 5% nei primi anni del XX.

Il Giappone ha conosciuto un periodo di grandi riforme nell’era Meji con l’abolizione dei privilegi e delle corvée e il superamento delle disparità di status, soprattutto nei confronti dei “burakumin”, i più poveri: lo scopo era di avvicinarsi ai livelli degli occidentali e di non farsi dominare.

Con limiti e battute d’arresto, tra cui il forte nazionalismo, il Giappone ha comunque avuto un ruolo importante in Asia per il superamento del colonialismo (anche se spesso fu una potenza occupante). Il Giappone rappresenta un’esperienza di trasformazione sociopolitica particolarmente rapida, superando con una decisione volontaristica antiche disuguaglianze. L’attuale disuguaglianza si pone a un livello intermedio tra quello degli Stati Uniti e quello europeo. Cina. Fino al 1911 (istituzione della Repubblica) si può dire che la Cina abbia avuto una configurazione trifunzionale. Un’importanza notevole ha avuto il confucianesimo, trattandosi più di saggezza civica che di religione. Ai letterati confuciani erano attribuite le più importanti cariche amministrative; i funzionari imperiali erano pochi (40.000 su una popolazione stimata in 400 milioni) e molto selezionati. Il confucianesimo è stato un grande fattore di unità dell’impero.

Ci sono state rivolte popolari importanti: quelle di Taiping (1850-1864) e quella dei Boxer (1899- 15 1901), entrambe domate anche con l’aiuto degli occidentali. A Tianjin, vicino a Pechino, per combattere i Boxer si concentrarono le forze di ben 10 paesi, formando un atipico governo internazionale (un vero paradiso per i soldati). Nel 1911 cadde l’Impero e si formò una repubblica – con a capo Sun-Yat-sen – molto conservatrice. Da allora fino al 1949 si manifestò la guerra civile tra comunisti e nazionalisti e per la liberazione dai giapponesi e dagli occidentali. Iran. Offre l’esempio inedito di una costituzionalizzazione tardiva del potere religioso. Mentre gli sciiti sono in genere delle minoranze (Libano e Iraq) e in quanto tali poveri, in Iran, per vicende storiche, rappresentano quasi l’intera popolazione. I sunniti riconoscono l’autorità del califfo (autorità militare e temporale), gli sciiti seguono l’imam, capo spirituale religioso. I religiosi sciiti costituiscono una vera e propria classe sociale, con alleanze matrimoniali e una notevole proprietà (gestita con le moschee, le scuole e le fondazioni religiose), a capo sono i mujtahid e sopra loro i marja. Il clero sciita si è distinto nella lotta anticoloniale e quando lo Scià nel 1962 ha tentato di togliere loro potere, sono avvenute imponenti manifestazioni che hanno portato al potere Khomeini. La repubblica instaurata non solo è islamica, ma, pur essendoci libere elezioni, di fatto è controllata dal clero. Le leggi votate devono essere approvate da almeno 5 mujtahid; solamente i religiosi possono far parte dell’Assemblea degli esperti che elegge la Guida Suprema, elegge 6 dei 12 membri del Consiglio dei Guardiani, deve approvare le candidature al Parlamento.

I dati a disposizione dicono che il Medio Oriente è oggi la regione al mondo più disuguale ( Emirati Arabi, Arabia Saudita, Qatar). In Iran la distribuzione delle ricchezze è molto opaca; secondo alcune stime i Pasdaran controllano il 30-40% dell’intera economia. E’ diffuso l’uso della “zakat” (la decima), ma non corrisponde a una cifra precisa e dunque non è valutabile nella sua proporzione.

(continua qui)


 

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